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La rivoluzione verde in agricoltura: fine di un mito?


Alcuni saggi davvero interessanti stanno demolendo il mito della Rivoluzione verde, vanto del sistema produttivo agro-industriale a partire dalla seconda metà del XX secolo: un sistema che integra ricerca industriale, sviluppo tecnologico, diplomazia e marketing in grandi complessi produttivi e finanziari che, ove sostenuti con forza dalla politica, hanno prima dominato i mercati agricoli mondiali, privando il mondo agricolo di qualsiasi voce in capitolo e preparando la strada all’ultima grande fase, quella biotecnologica, di assoggettamento della natura alle regole della globalizzazione tecnologica e finanziaria.

Il mito della Rivoluzione Verde: ha salvato dalla fame

Apprendiamo infatti da una serie di studi autorevoli di provenienza anglo-sassone che l’idea centrale che ha alimentato il mito della Rivoluzione verde è probabilmente una faible convenue non rispondente alla realtà dei fatti.

Un recente articolo di Glenn Davis Stone ricorda come, accettando il premio Nobel per la pace nel 1970, Norman Borlaug, il celebrato padre della Rivoluzione verde, avesse parlato appunto di quest’ultima come di una vittoria fra “due forze opposte: il potere scientifico della produzione alimentare ed il potere biologico della riproduzione umana”, riprendendo quindi il tema malthusiano, fondativo della visione delle società umane tipica del liberismo economico1.

È dunque questo il punto di partenza del mito edificato intorno a questa gigantesca operazione al tempo stesso economica, scientifica, tecnologica e politica: tanto che ancora oggi, secondo Glenn Davis Stone, gli storici dell’agricoltura sostengono, ad esempio nel caso, sempre citato come esemplare, dell’India, che la sua economia agricola “era praticamente stagnante fino all’inizio della rivoluzione verde”.

Il caso dell’India: i dati di fatto

Lo studioso americano prende quindi in esame più da vicino la questione dell’India e, in modo assai agile ma seriamente documentato, spiega come in realtà il meccanismo che si attivò non sia stato altro che il frutto di una scelta politico-diplomatica degli Stati Uniti di Lyndon Johnson, da una parte, e dell’India di Nehru, dall’altra: dopo la scomparsa di Gandhi, i due statisti si incontrarono su di un terreno assai diverso da quello dell’autosufficienza alimentare sostenuto dal Mahatma per difendere l’indipendenza dell’India, da poco uscita dalla morsa del colonialismo britannico:

«il primo ministro Nehru scelse invece l’industria pesante (acciaio, prodotti chimici) – con l’incoraggiamento degli Stati Uniti. Quando gli Stati Uniti gli offrirono grano gratis – principalmente per liberarsi del proprio crescente surplus produttivo – l’India lo accettò, per mantenere bassi i prezzi degli alimentari a favore degli operai delle fabbriche, da poco inurbatisi. Questa scelta ha indebolito i produttori indiani ed ha danneggiato la produzione nazionale di cereali.
In altre parole, erano proprio quelle forniture di cibo [da parte degli Usa, N.d.R.] a determinare la dipendenza alimentare [dell’India, N.d.R.]. Nel frattempo, l’India incoraggiava gli agricoltori a passare dalle colture alimentari a quelle non alimentari, come la iuta, che ha sostenuto il boom delle esportazioni indiane negli anni ’60. Ironia della sorte, la maggior parte di quella iuta andava a finire negli Stati Uniti, dove serviva per fabbricare i sedili dei trattori americani ed i sacchi che contenevano proprio il grano che veniva spedito in India)».

Glenn Davis Stone fornisce un quadro assai dettagliato, dal quale risulta la sostanziale non veridicità di un’India presentata come ridotta alla fame e salvata dalla Rivoluzione Verde, e lo dice in termini estremamente netti:

«Se analizziamo le tendenze a lungo termine non solo del grano, ma di tutti i cereali alimentari, si rileva che, anche con le importazioni in calo, la produzione degli agricoltori indiani stava salendo più velocemente della popolazione, sia prima che dopo la siccità.
Gli anni della Rivoluzione Verde non hanno portato ad una crescita agricola più veloce né a più cibo pro-capite, ma solo ad una più alta percentuale di grano nella dieta degli Indiani.
Soprattutto, se davvero ci fosse stata una reale carestia durante la rara siccità durata due anni [1965-1967, N.d.R.], prima della Rivoluzione Verde, chi avrebbe dovuto morire di fame dopo il ritorno delle piogge? I nuovi studi storici ci portano a rivedere il numero di vite salvate dalla Rivoluzione Verde da un miliardo a un numero inferiore. Cioè a zero».

L’importanza dell’agricoltura per vincere la Guerra Fredda

Lo studioso, riprendendo temi esplorati da quasi un decennio da brillanti studi come quello di Nick Cullather2, trova un’assai logica ragione della costruzione di questo mito storico nelle motivazioni geopolitiche della Guerra Fredda:

«La leggenda di “persone che fanno miracoli nel mondo” continua ad essere promossa da quanti hanno un preciso interesse in questo. Si adattava agli interessi del governo degli Stati Uniti in quel momento: chiuso tra la Guerra Fredda con i sovietici e le fiamme della guerra del Vietnam, gli Stati Uniti furono attratti dall’opportunità di mostrare un loro trionfo umanitario in Asia. (Persino il nome “Green Revolution” fu un esplicito rimprovero alla rivoluzione rossa)».

Non a torto, a nostro avviso, lo studioso aggiunge a questo punto:

«Oggi l’industria biotecnologica ed i suoi alleati promuovono zelantemente la leggenda come una cornice esaltante per la diffusione delle colture geneticamente modificate»3.


1) Di questa visione, frutto di una concezione filosofica quanto meno discutibile, pensiamo abbia già fatto da tempo doverosa giustizia Karl Polanyi nel suo celebre La Grande]

2) Nick Cullather, The hungry world: America’s cold war battle against poverty in Asia, Harvard University Press, Cambridge, MA, 2010.

3) il testo integrale da cui abbiamo tratto queste citazioni